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La riforma del processo civile
 
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Cassazione alla prova del filtro

dal nostro inviato Alessandro Galimberti

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31 maggio 2009


STRESA - Basterà la mini-riforma del processo civile per risolvere i problemi e la mole di arretrato dei tribunali (5,4 milioni di cause) oltre alla cronica inefficienza degli uffici, che relega l'Italia al 156° posto mondiale, dietro il Gabon? All'indomani dell'approvazione di una legge, comunque sia, circondata da molte aspettative, avvocati, magistrati, accademici e politici si sono confrontati sul tema «Organizzazione e qualità del servizio giustizia», tanto per ribadire le rispettive distanze e perplessità. Unico comune denominatore, tra punti di vista talvolta opposti, la consapevolezza che a far funzionare il sistema, prima ancora delle riforme, è la leale collaborazione (cioè deontologia) delle parti coinvolte, giudici, avvocati e personale amministrativo.
Critico Romano Vaccarella, ordinario di processuale civile alla Sapienza, secondo cui i più soddisfatti delle riforma «saranno gli editori dei codici». «Questo pacchetto di norme non mi fa felicissimo – ha detto – dalla rottamazione delle cause passate per competenza ai giudici di pace, alle ordinanze per dirimere le questioni di competenza, al divieto di nuove produzioni in Appello, fino alla soppressione del quesito di diritto alla Cassazione». Unico spiraglio, secondo il docente, la calendarizzazione delle udienze «che potrà funzionare solo se i giudici si decideranno a orientare la causa fin dall'inizio: cosa che presuppone che arrivino in udienza conoscendola»: una rivoluzione, sembra di capire.
Efficienza giudiziaria come affidabilità e capacità di attrarre investitori stranieri: un concetto ormai universalmente accettato, tanto che se ne fa portatore anche Vincenzo Carbone, primo presidente di Cassazione: «Nessuno investe senza garanzie di efficienza del sistema giustizia», ha detto, salutando con molto favore il filtro ai ricorsi di legittimità «ultimo Paese a introdurlo». Ma per Carbone anche fuori dalla riforma già molto si poteva e può fare: «L'articolo 47 del riassetto dell'Ordinamento giudiziario del 1999 prevede poteri di sorveglianza, vigilanza, organizzazione e coordinamento enormi in capo ai presidenti di sezione: perché non li si usa?». Così l'Italia spende 82 miliardi per la legge Pinto (per ritardata giustizia ai suoi cittadini), con il 90% delle cause originate dal Sud. «E quando poi si arriva alla scarcerazione di condannati per decorrenza termini non c'è nessuna, assolutamente nessuna giustificazione che può reggere», ha chiosato Carbone. «Giustizia come calvario» è la lettura del sottosegretario alla Giustizia, Maria Elisabetta Alberti Casellati, che, citando uno studio di Confartigianato, ha descritto un aumento dei fidi bancari del 27% laddove la giustizia civile funziona. E quanto alla via da percorrere, è nell'articolo 110 della Costituzione, con i poteri riconosciuti al ministro sull'organizzazione e funzionamento del servizi.
Di ripartizione di responsabilità nel default della giustizia non vuole sentir parlare il presidente dell'Ordine forense milanese, Paolo Giuggioli: «Se un'udienza è rinviata al 2018, come è successo in Lombardia, la colpa non è certo dei legali». Incalzante, Giuggioli, sui Consigli giudiziari («dove noi siamo lì come marmotte ad ascoltare le autoassoluzioni dei giudici»), sulla separazione delle carriere («assolutamente necessaria») sul filtro in Cassazione «incostituzionale», e sul decentramento del ministero («in vigore dal 2006 ma mai attuato»). E mentre Fabio Roja (Csm) prende le distanze dalla giustizia come «servizio» («non è un prodotto ma una funzione, al limite un prodotto ottenuto da regole») il sottosegretario Giacomo Caliendo invita tutti alla collaborazione: «Ognuno faccia la sua parte, senza alibi, altrimenti non si va da nessuna parte». Una mano tesa anche ai magistrati, ma non a quelli che «fanno politica e poi fanno sentenze: con loro la Cassazione sia più severa e li ricusi».

31 maggio 2009
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